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articolo di :Federico Mello
In principio fu Napster. Ma dopo lo shock del 1999, che finì con la chiusura del sito, le etichette discografiche si sono dovute evolvere. Ora il problema non è più solo “vietare il download”, ma creare un’alternativa con più qualità, un’offerta sterminata e micro-pagamenti. Anche in Italia, seppure in ritardo, qualcosa si muove.

Secondo lo storico Eric Hobsbawm il novecento è stato il “secolo breve” in cui la lotta tra comunismo e capitalismo ha portato – nelle democrazie occidentali – a soluzioni di compromesso: libero mercato mitigato dal welfare e dalle politiche sociali. A cavallo dei due millenni, tra il ventesimo e il ventunesimo secolo, un processo analogo ha investito la musica: la guerra tra case discografiche e musica “pirata” è stata all’ultimo sangue. Ma dopo dieci anni di lotta feroce oggi forse potremmo scoprire che anche grazie al download illegale tutto è cambiato: i prezzi della musica sono scesi, la qualità è migliorata, l’offerta si è moltiplicata in modo esponenziale.

Tutto cominciò nel 1999. Arrivò Napster e fu rivoluzione. Il software inventato da Shawn Fanning e Sean Parker permetteva agli utenti di condividere file “tra pari” (“peer to peer”). Molti sicuramente ricordano ancora l’emozione – per chi era cresciuto a cd con dodici tracce a quarantamila lire – di trovarsi d’un tratto davanti a discografie complete e gratuite, rarità da sempre cercate, dischi “minori” da poter ascoltare senza alcun dispendio. Il downoload di materiale protetto dal diritto d’autore diventò presto un reato per molte legislazioni nazionali, ma per la sensibilità degli utenti è stata spesso tutt’altro: un’acquisizione di conoscenza senza fini di lucro, non troppo diverso dal duplicare audiotape e Vhs. La musica, comunque, un bene scarso fino alla rivoluzione Napster, da allora diventò totalmente accessibile a tutti.

La reazione delle case discografiche fu immediata e tutta incentrata sulla repressione. “Il download illegale è un furto” è stato per dieci anni il leitmotiv di etichette che vedevano disfacersi sotto i loro piedi un mercato enorme. Napster fu accusato di violazione del copyright e costretto a chiudere. Ma ormai il meccanismo era innescato. E la “censura” si rivelò inutile: altri servizi presero la bandiera della condivisione: Kazaa, poi eMule, quindi i sistemi BitTorrent. “Negli ultimi dieci anni – spiega oggi Enzo Mazza presidente della Fimi, Federazione industria musicale italiana – il mercato si é di fatto dimezzato”. Dopo un periodo di panico, però, l’industria-musica si è riorganizzata: “Le aziende sono state costrette ad operare in maniera sempre più diversificata, dal live, al digitale, al merchandising per trovare nuove forme di ricavo, che in ogni caso ancora oggi non compensano il calo del fatturato” continua Mazza.

Ma la soluzione potrebbe essere sotto i nostri occhi. “Tutte le scuse per piratare la musica sono state distrutte dalle etichette discografiche”, è la riflessione del giornalista tecnologico Paul Boutin pubblicata nel numero di dicembre di Wired Usa. Quando nel 2003 uscì il servizio iTunes Music Store di Apple, spiega Boutin, gli mp3 erano “protetti” dai Drm. I Digital Rights Management sono software che limitano l’utilizzo del singolo file acquistato: un album può essere riprodotto solo su un numero massimo di computer, o può prevedere alcune restrizioni quando si va a fare una copia su un cd. Ma anche questa battaglia è persa: un anno fa Apple ha annunciato che rimuoverà ogni restrizione agli mp3 venduti sul suo negozio digitale (inoltre su numerosi negozi digitali, a partire da Amazon, sono in vendita mp3 senza alcuna restrizione all’utilizzo).

Si è evoluta anche l’offerta di musica. Fino a poco tempo fa la qualità audio degli mp3 venduti online era di 128kbps, compressione che portava ad una resa minore rispetto a un compact disc. Attualmente, invece, la qualità media degli mp3 venduti online è di 256 Kbps, considerata generalmente di “alta fedeltà”. Ancora. Sui cataloghi online la disponibilità di tracce è così ampia da aver raggiunto il livello delle librerie condivise dagli utenti: rarità, live, musica di nicchia, tutto è disponibile sugli store digitali. E sempre più saranno i file disponibili con gli accordi tra etichette e store che mi moltiplicano: prova ne è il recente accordo che ha portato la discografia completa dei Beatles su Apple Store.

Da non dimenticare, infine, i servizi “ad abbonamento”. All’estero software online come “Spotify” sono il nuovo standard di fruizione della musica: a partire da dieci euro al mese si può ascoltare un numero infinito di brani, si può suddividere la libreria per artisti, per album, creare playlist. In Italia questi sistemi sono poco diffusi: i grandi gruppi internazionali ancora non trovano conveniente sbarcare nel nostro Paese (considerato “carente” dal punto di vista delle infrastrutture digitali e dell’utilizzo delle carte di credito). Ma nella penisola ha aperto le danze Play.me che, a partire da 10 euro al mese, permette di ascoltare la musica in streaming, di scaricare alcuni mp3, e di usufruire del servizio dal proprio smartphone.

C’è un ultimo aspetto da affrontare. Quando si paga per dei brani o degli album, acquistandoli o abbonandosi ai servizi specifici, si finanziano i musicisti e le band. Secondo i calcoli di Wired, almeno il 20 per cento di quanto paghiamo un download va a chi ha inciso o interpretato la musica. Una cifra non indifferente se si pensa che per ogni copia di libro venduto uno scrittore incassa mediamente il 10 per cento del prezzo di copertina.

Anche gli imprenditori delle etichette musicali, grandi e piccole, si dicono ormai pronti: “L’offerta legale é la principale risposta alla pirateria – la riflessione di Mazza -, soprattutto quando accompagnata da modelli di pagamento flessibili”. Della stessa idea Giordano Sangiorgi, patron del Mei, Meeting delle etichette indipendenti: “Finalmente si profilano dei modelli di business che non si basano sull’inutile repressione della pirateria”, spiega a ilfattoquotidiano.it. In Francia oltre alla repressione (chi viene scoperto a scaricare tre volte ha la connessione staccata, ndr) con ‘carta-giovane’ si pagano 25 euro e si ottengono 50 euro da spendere in musica. Quei 25 euro li aggiunge lo Stato”.

In Italia sulla lotta alla pirateria si sta raggiungendo un accordo di compromesso. La scorsa settamana l’Agcom ha elaborato un pacchetto di proposte contro questo fenomeno. La bozza, ora aperta ad una consultazione pubblica, non sposa le legislazioni più repressive adottate in Europa (come Hadopi in Francia) e prevede la cancellazione di specifici siti web per violazione di diritto d’autore solo dopo un contradditorio tra le parti. Il testo, inoltre, promuove anche la distribuzione legale della musica online.

Oltre la pirateria, quindi, dopo dieci anni di guerra della musica, anche in Italia abbiamo prezzi competitivi, librerie complete, migliore qualità; chiunque inoltre può avere la sua chanche di farsi conoscere su Internet. Le etichette discografiche sono state costrette ad evolversi, ed andare incontro agli utenti. Forse è arrivato il momento per tutti i downloader di cambiare mentalità e, finanze permettendo, di andare incontro alla musica.




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